“La via delle stelle”, fotografia di Andrea Gasparotto

foto andrea gasparotto

Quando ero piccola, c’erano sempre le favole, tra noi; quelle che tu facevi diventare favole, partendo dai tuoi racconti di vita. Bionde principesse da salvare dalla triste esistenza che conducevano e  grandi castelli, arroccamenti disabitati nel mezzo della campagna; e poi cavalli bianchi, anche se malnutriti e spesso assetati, e carrozze: tutto quello che fa parte del mondo fatato aveva spazio in ciò che mi raccontavi, perché tanto era l’amore che avevi dentro di te per il tuo vissuto, da volerlo portare nella mia vita di bambina, anche a costo di condirlo con quello che io, allora, amavo di più.

Non c’erano libri tra di noi, perché tu, che eri cresciuta in un’epoca dove i libri erano un lusso, avevi imparato a farne a meno, senza però smettere di imparare dalla vita, diventando così una preziosa insegnante per me. Nei lunghi pomeriggi che trascorrevo da te, quando mamma era al lavoro, il nostro appuntamento per la merenda delle cinque era divenuto un rito. Crackers non salati da inzuppare nel the. Oppure, a seconda di quello che avevi in casa, pane, con olio e zucchero sopra. Tutti ingredienti poveri, tramandati dalla tua infanzia, che ai miei occhi assumevano l’aura di un cibo degno della figlia di un re, per come tu me li presentavi. Avevamo il nostro quaderno segreto, anche, perché la volta in cui ti avevo chiesto dove custodivi tutte le tue ricette e tu mi avevi risposto, con estrema semplicità, che dimoravano nel tuo cuore, avevamo deciso di metterle per iscritto. Io, che a quei tempi frequentavo le scuole elementari, non stavo più nella pelle all’idea che sarei diventata la depositaria di simili segreti; portavo il mio diario e scrivevo ciò che tu, sotto forma di dettato, mi facevi vivere come un’esperienza fortunata. C’erano gli ingredienti magici, anche, le ali di pipistrello e le bacche dorate; in cuor mio volevo profondamente credere che tu avessi anche i poteri delle fate – tu lo sapevi, e aggiungevi componenti nuovi ogni settimana. Da dove la tiravi fuori tutta quella fantasia, tu che hai vissuto di poco e senza strumenti per sognare?

Forse, proprio quella carenza aveva reso illimitati i tuoi, di sogni, perché quando cresci con niente, ti auguri di poter avere tutto, prima o poi. Per me, nonna, eri davvero speciale. Hai continuato a esserlo, anche quando sono diventata adolescente. Quando gli elementi fiabeschi avevano cessato di esistere nel mio cervello, e avevi trovato un’altra via per accompagnarmi. Quando mi vedevi sofferente per qualche male d’amore, ma il tuo essere estremamente pudica non ti permetteva di parlarmi direttamente di quelle cose, e allora accendevi la tv e insieme guardavamo una puntata dei nostri telefilm preferiti. Lì, davanti alle azioni dei protagonisti, ti permettevi di esprimere il tuo pensiero, facendomelo arrivare sotto forma di quel consiglio che non avevi il coraggio di darmi. Ai miei tempi non si faceva così, amavi ripetermi. Ma non lo dicevi con il presupposto che ci fosse una via da seguire. Ciò che nella tua gioventù ti era stato imposto come l’unica strada possibile, ti dava la forza e il coraggio di desiderare per me tutto quello che tu non avevi potuto e amavi farmi ragionare per poter scegliere di testa mia. Fatti avanti e invitalo tu, se pensi che questo potrebbe farti stare meglio, mi rispondevi infatti quando ti raccontavo del ragazzo che mi piaceva ma che non mi filava. Perché il tempo corre forte, e non sarà sempre lì ad aspettarti. Eri una rivoluzionaria, nonna. Sembrava tutto così facile, quando usciva dalla tua bocca. Credo che la fatica estrema della tua vita ti abbia donato, con gli anni, la possibilità di vivere tutto con grande facilità.

Sono diventata grande anch’io, e oggi sono mamma. I miei bambini sono stati fortunati, ad averti nelle loro vite, ancora più di me, perché la tua tecnica negli anni si è affinata, e sei divenuta all’unanimità la cantastorie della famiglia. Le tue fiabe erano così reali che Silvia, la più piccola, si è creata il suo luogo fatato, al quale ha dato il tuo nome: il regno di Letizia. La sua camera è un percorso a ostacoli e a noi comuni mortali non è permesso entrarci, senza il suo benestare. Tu, nonna, che le hai fatto disegnare centinaia di stelle da attaccare sul soffitto, perché eri convinta, da sempre, che le stelle sono le case delle persone a cui vogliamo bene, trasferite in cielo. Era il tuo modo per mantenere vivo il ricordo e l’amore. Silvia passava le serate con te, in camera, con la faccia all’insù. Gliene indicavi una, e lei ne prendeva nota nel suo album. Ha creato  una mappa fatta di stelle identiche le une alle altre, ma diverse ai suoi e ai tuoi preziosi sguardi, perché sapevate riconoscere quella di tutte le persone di cui tu le parlavi. Per ognuna, infatti, avevi una storia da raccontarle, condita con il tuo solito tocco di magia. In ogni stella abitava un ricordo della tua vita, una persona che per te aveva avuto un ruolo fondamentale. C’era quella di nonno, che io ogni sera passo ancora a salutare, quella dei tuoi genitori, dei tuoi fratelli e sorelle, amiche, zie, maestre di scuola, panettieri e verdurai. Le persone che entravano nella tua vita erano fortunate; avevano per sempre un posto speciale nel tuo cuore e hanno avuto in dono una stella.

Silvia me lo chiede spesso, ora. Che fine hanno fatto le stelle della nonna, ora che lei non è più con noi? Non è facile farle capire che ci sono cose che rimangono vive anche quando chi le ha create non c’è più. Non è facile spiegarle che l’amore si manifesta anche in questa forma. Ha solo cinque anni, ma la sua immaginazione si è arricchita dei tuoi racconti e di certo non faticherà ad addormentarsi scrutando il soffitto della sua cameretta, per ritrovare, tra i suoi disegni, l’eco delle tue parole. La tua stella, però, non l’ha voluta insieme a tutte le altre. Ne ha disegnata una gigante, un cartellone intero; ci ha messo tutto un giorno a colorarla per farla diventare come voleva lei, con i riflessi dell’oro e tante sfumature diverse all’interno e poi ci ha copiato a caratteri cubitali il tuo nome, a stampatello. L’abbiamo ritagliata insieme e poi l’abbiamo cosparsa di colla, dietro.

Ora usciamo, mamma, mi ha detto alla fine, stanca ma felice.

La sera non fa ancora caldo; il sole tiepido del giorno diventa aria piacevolmente fresca all’orario di cena e abbiamo indossato un maglione per poter star fuori di più. Abbiamo tirato fuori la scala dal granaio ed è stato buffo e tenero allo stesso tempo vedere i suoi sforzi per cercare di tenerla ferma, mentre io mi ci arrampicavo sopra. La stella di carta sottile si ripiegava su se stessa a ogni gradino, e mi pareva dolorosamente di tenerti tra le braccia, esile e leggera come eri diventata, stanca della vita. Ma Silvia rideva ogni volta che la carta cadeva in giù, tutto è ancora un gioco alla sua età. Mi ha fatto bene, sentirla ridere, mescolavo il mio dolore al suono pulito e ingenuo delle sue risate, lavando via in qualche modo la mia tristezza, sublimandola in qualcosa di superiore, che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni.

Sono passate solo 24 ore, ma stasera è assai diversa da ieri. Silvia è già a letto e io sono qui, sotto lo stesso cielo, quello che ha generosamente accolto la stella di Letizia. Che buffo cercare di appiccicare qualcosa al cielo. Silvia insisteva e ci abbiamo messo un po’ a trovare il posto giusto per la nonna. Le braccia mi fanno male, reggerle in alto così a lungo mi ha procurato un bel po’ di dolori. Ma sai cosa? Ho imparato come si fa. Mi sentirò più vicina al cielo, a te, ogni volta che le alzerò verso l’alto, d’ora in poi. Come un nuovo esercizio per l’anima, indelebile nella memoria.

Alla fine, la stella non è rimasta attaccata al cielo, come era logico. A Silvia ho spiegato che forse ci vuole un po’ di tempo perché quelle che partono da qui, dalla Terra, arrivino lassù; l’abbiamo ripiegata con cura e portata in casa, le mani sporche di colla e di un misto di acuta nostalgia e senso di gratitudine verso la vita. E’ sembrata convinta. Stasera, dopo cena, siamo state un bel po’ col naso all’insù, cercando di indovinare dove saresti atterrata.

Credo di dover seguire il suo intuito, perché è convinta che da qui, guardando in alto, tu sia proprio alla nostra destra, sopra al camino e verso il cartello stradale all’angolo; dice che su quel cartello dovremo scriverci anche il tuo nome, con una freccia in verticale, così chiunque ti cercherà saprà dove trovarti. Dovrò accontentarla, perché non molla quando si mette in testa qualcosa, e quindi domani scriveremo Letizia su una tavola di legno, e poi l’attaccheremo là sotto.

Per stasera, mi godo la via delle stelle, che più che mai riluce d’oro. Se chiudo gli occhi e ascolto con attenzione, sento l’eco lontano del tuo respiro e migliaia di battiti di vita che si rincorrono in cielo, da una stella all’altra, come rintocchi di campane fatate. Ci sono sempre state le favole, tra me e te, nonna. Ora che sono adulta, sono felice di averle ritrovate.

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