Narrativa in racconti brevi, ognuno raffigurato con foto d’autore: dettagli precisi che restano nell’immaginario come impronte indelebili.
PREFAZIONE
Due autori singolari, eclettici, capaci. Due artisti veri. Sto parlando di Tania Piazza e Ivano Mercanzin: la prima d’una densità umana tanto spessa da poterla sentire addosso; il secondo, in questa raccolta di brevi narrazioni, come fotografo dei dettagli e animatore delle storie con tali meraviglie scattate rubandole ai momenti salienti, sono l’uno il braccio destro dell’altra. Questo libro è stato concepito proprio così, come si procrea un figlio e occorrono due DNA, la parola e l’immagine. Trovo, nella sequenza dei racconti, una nuova oggettività in un mondo mistico e reale insieme, forse la poesia della scrittura legata al materico rovescio della medaglia, un connubio ben riuscito. I testi variano nella semantica e nell’esposizione, si passa dai protagonisti fragili, disadattati per certi versi, i disperati esseri umani che vivono le loro debolezze e le loro miserie; oppure gli introspettivi, i ricercatori della verità esistenziale, tutto condito e compreso dalla e nella memoria individuale e collettiva, l’archetipo della sofferenza degli esseri che abitano la terra e non trovano pace mai, poiché senza risposte il dubbio divora. Ma Tania Piazza è abile, riesce a tirar fuori dalle immagini narrate anche situazioni grottesche e ironiche, mescolate a riflessioni profonde, che ci fanno sentire tutti in un solo dolore, nella stessa bolla, laddove, allora, è possibile incontrare l’abbraccio dei sorrisi, per andare incontro al destino che ci aspetta, calzante alla perfezione il mal comune mezzo gaudio. Di questa penna io adoro le mistificazioni, ad esempio, che si scovano dietro le apparenze, le ipocrisie; la capacità dell’Autrice di dominare, con l’analisi soggettiva, ogni storia che ci racconta. Poi ci sono l’intrigo, la forza, il linguaggio che scivola e conquista, ogni storia è una persona, ogni persona uno di noi. Noi lettori, che in questa raccolta, siamo liberi di entrare dalla porticina retrostante e accedere all’immedesimazione, oppure restare seduti come spettatori, ma in entrambi i casi molto coinvolti. Così fantasie, ricordi, spezzoni d’esistenza scaraventati negli occhi, bastano a farci emozionare, con un moto di spirito preciso: lo stupore che ci meraviglia il dentro, ci affascina, anche quando accusiamo il dolore, sfuggiamo alla paura, tremiamo nel perderci tra le parabole delle parole che l’autrice conosce magistralmente e sa come dosare.
Prima di addentrarci nella lettura, però, soddisfiamo lo sguardo, che diventa acuto osservatore degli scatti fotografici di Ivano Mercanzin, e anche qui non riusciamo, per lunghissimi secondi, a passare oltre. Le immagini ci catturano, letteralmente, danno la percezione normale della normalità, appunto, trasmigrano dalla semplice prospettiva al nodo dell’anima, laddove esistono movimento, energia, scalpore, inquietudine. Segnali di vita, dunque. Io stessa sono un’appassionata di fotografia, e devo dire che quella di Mercanzin mi coinvolge per la sua semplicità, perché mi fa pensare, da inesperta (anche se appassionata) quale sono, che anch’io, in quel momento, in quell’istante, avrei impresso la stessa posa, la stessa luce; o, per spiegarmi meglio: l’artista ci somiglia, è uno di noi, è colui che guarda quel mare, è quel casale in quel prato, quel cielo sopra quellenuvole. Ogni scatto ha un’identità forse più d’una, guarda in basso, in alto, a sinistra, a destra, con una piena e assoluta libertà intellettuale, stoicamente, analizzando e raggiungendo le traiettorie degli anfratti d’ogni angolo. Questi spazi infiniti che debordano dai fogli, indicano la grandezza, la capienza di quest’occhio attento nell’assorbire, a pupille piene, ogni meraviglia. D’un tramonto l’attimo più significativo, d’un sole il passo dorato della luce, delle persone non certo il corpo, ma l’anima, sicuro. Ecco perché, come accennavo sopra, questo matrimonio artistico fra Tania e Ivano è riuscito perfettamente, incastonandosi tra le parole e le fotografie, come quando si accorda uno strumento, ogni nota al suo posto, ogni suono sulla sillaba adatta. È così che incantano i Nostri, tra le unità memoriali che formano il nucleo di questo libro, in sinergia precisa con tutti i sensi di cui l’essere umano dispone, attraversano e centrano appieno la rappresentazione di ogni storia qui narrata e fotografata.
Silvia Denti (poetessa, scrittrice, editrice)
INFINITA’
“Stare appiccicati a qualcuno, si può. Io l’ho fatto per anni, fino alla settimana scorsa: esattamente sei anni e ventidue giorni. Senza farmi vedere, senza che lei lo sapesse, almeno non più. All’inizio, gliel’avevo detto ben chiaro: “Non ti abbandonerò mai, non ti lascerò andare nell’oblio. Sarò sempre con te, anche se non mi vuoi più.” Che poi, non è stata lei a decidere che dovevamo dividerci; è stata la vita stessa a farlo. O meglio, la mia vita ha portato lei a dirmi addio. Ci siamo conosciuti che io ero già sposato, con due figli. Perché non potevamo incontrarci prima? Dopotutto, era con una come lei che avrei voluto costruire una famiglia. Era con una come lei, che avrei voluto camminare giorno per giorno. Alla fine, quello che mi ha fregato è stato quel “come lei”. L’ho compreso dopo, che esiste solo una Lei, e qualcuna, forse, come lei. Con la quale si può stare bene, ci si può sposare e ci si può anche fare dei figli; ma quando poi la vita ti mette di fronte a Lei, allora capisci tutto. E vorresti poter tornare indietro, per compiere di nuovo le tue scelte, ma sai che non è possibile.
Quando ci siamo incontrati, ho provato a far finta di niente. Ho proseguito senza cambiare nulla. C’era solo Lei, in più, ma non credevo che questo sarebbe bastato per smontare il mio equilibrio. All’inizio, ho chiuso gli occhi, semplicemente: Lei mi cercava, ma io fingevo di non vederla. Credo sia stata la vita stessa a ingiungermi di aprirli, quegli occhi, quella stessa vita che oggi mi spinge a chiuderli di nuovo. Resisti, per un po’, ma poi non ne hai più, nulla può contrastare ciò che porta in sè un vago sapore di infinito. E allora lo accogli in te, e ti accorgi che quello che prima chiamavi vita, altro non era che una brutta copia, una prova scritta in fretta, d’istinto, da riportare prima o poi in bella. Pensi ai tuoi figli, pensi a tua moglie. Alla casa. Alle vacanze. Alla cena da preparare. Agli acquisti da fare. All’erba del giardino da tagliare. In mezzo a tutto quello che è vita, vorresti metterci Lei. Come se nulla fosse, tra una lista della spesa e i bambini da portare a scuola.
Ma Lei non ci sta, e allora glielo spieghi che non puoi cancellare anni di vita vissuta in nome di una promessa di anni di vita da vivere. Glielo dici che non puoi immaginare di ritornare a casa la sera, dopo il lavoro, e non sentire più i rumori dei tuoi figli che giocano tra di loro e rinunciare a vedere la scintilla che, in mezzo alla stanchezza di tutto il giorno, anima comunque di gioia gli occhi di tua moglie. Lei, dove potrebbe stare in tutto ciò?
Non ci sta, punto. Ecco perché decidi che le rimarrai appiccicato per sempre, a distanza, addosso come fosse vero, ospite nel tuo stesso cuore. L’ho portata da allora, dentro di me, e me la sono tenuta stretta ogni giorno. Per sei anni e ventidue giorni, in ogni momento della mia vita. E’ come se l’avessimo vissuta in due. Lei forse nel frattempo se l’è dimenticato, ma il mio cuore ha sempre battuto doppio, a ogni battito: uno per me, e uno per Lei. Gliel’avevo giurato, che non l’avrei lasciata andare mai, ed è questo che ho fatto. Anche quando ho saputo che si era fidanzata. Anche quando mi hanno detto che cercava casa, per starci con lui. Non ho mai visto una fine, in questo, solo un naturale proseguio delle nostre vite. Svegliarmi alla mattina sentendola dentro di me; sognarla, a volte, la notte, per vivere degli sprazzi di irrinunciabile felicità. Non ho mai visto una fine, mai.
La scorsa settimana, però, ero in coda per un hamburger, come al solito: la mia pausa pranzo veloce, qui sul lungomare. I gabbiani hanno la voce acuta, e a volte ho l’impressione che possano scheggiare il cielo; mi piace starmene qui ad ascoltarli, mentre mangio, prima di tornare in ufficio. E’ come se ogni giorno la perfezione cristallina del paesaggio venisse messa in pericolo dalle loro urla, e amo vedere come questo non succeda mai. Mi metto in un angolo, a osservare le persone che passano, veloci nelle loro vite diverse. D’estate, poi, l’allegro brulichio di gente fa sembrare impossibile essere triste, anche per un solo, isolato attimo. Amo questo luogo, in ogni stagione. Mi riporta alla gioia dell’infinito. Mi riporta a Lei.
Ma la scorsa settimana, appunto, mentre ero in coda per il mio hamburger, ho sentito casualmente due donne che, chiacchierando, parlavano di Lei. Credo fossero colleghe, perché la conversazione verteva sui turni da coprire e sul lavoro che sarebbe rimasto arretrato. Ci ho messo un po’ a unire le parole che stavo ascoltando con l’adorata coinquilina del mio cuore. Poi, ho capito: Lei è incinta. Aspetta un bambino. Avrà presto un figlio. Condividerà la felicità così definitiva di diventare mamma con un lui che non sono io. I suoi occhi parleranno a un altro uomo, raccontandogli cose che ho sempre immaginato avrebbero un giorno raccontato a me. E’ strano come certe cose si capiscano in un lampo, all’improvviso: il mio cuore l’ho sentito uscire dal petto, e credo ce l’abbia messa tutta per parlarmi, per rubare un po’ della mia attenzione, per farmi finalmente ragionare. L’ho visto prendermi in disparte e mettermi un braccio attorno al collo, abbassare il tono di voce e sussurrarmi nell’orecchio ciò che il mio cervello non aveva mai voluto ammettere: da sei anni e ventidue giorni ero solamente in attesa. Avevo parcheggiato Lei nel mio cuore con la speranza di fermare il tempo, vivere tutto quello che mi restava di questa vita con mia moglie e i miei figli fino alla vecchiaia, fino alla morte, e poi ritornare indietro, riprendere Lei da dove eravamo rimasti e ricominciare a vivere di nuovo, la vera vita che stavamo aspettando. Attendevo di vederla io, quella luce di felice incredulità, quando mi avrebbe annunciato di essere incinta. Attendevo di vedere nascere quel figlio del nostro amore. Di vederlo crescere, di tornare a casa la sera dopo il lavoro e ascoltare la sua voce allegra, e cogliere la scintilla di gioia che, nonostante la stanchezza della giornata, avrebbe abbellito gli occhi di Lei, al mio rientro. Attendevo di programmare le vacanze, gli acquisti, il dentista e la partita di calcio della domenica. Attendevo di vivere l’infinito.
Quel giorno, sono uscito dalla coda senza hamburger, e ho iniziato a camminare sul lungomare. Lo faccio tutti i giorni, da allora. Tengo la testa bassa, per non perdermi nessuno dei granelli di sabbia che riempiono la spiaggia. Osservarli, mi riappacifica col mondo. Provo a contarli, ma spesso mi perdo e torno indietro e questo mi dà serenità: ce ne sono miliardi, e ovunque volga lo sguardo la loro presenza mi calma, mi ridà fiducia in qualcosa che non conosce fine. Immagino di camminare per chilometri e chilometri e di ritrovare sempre la stessa sabbia sotto ai miei piedi, ascoltando il suono del mare, che continua a portarmene di nuova. Ciò che fino alla scorsa settimana dimorava dentro di me, rintanato in un angolo del mio cuore, si è spezzato, d’un tratto: sei anni e ventidue giorni interrotti senza un preavviso. Credevo bastasse stare appiccicati a qualcuno dentro al cuore, per mantenere infinita la promessa di vita. Credevo che, anche se Lei non ne era consapevole, avrebbe aspettato per sempre, con me, quello che sarebbe venuto. Camminavo dentro a questa vita con questa promessa di infinità. Ora, il mio cuore ha bisogno di un nuovo infinito; conto i granelli di sabbia, e mi pare di poterlo riempire così.
Qualcuno, ogni tanto, accenna un saluto incrociandomi. Vede un uomo solo – solo come non sono mai stato – con la testa bassa e lo sguardo rivolto al suolo. Mi sente mormorare con un filo di voce, perché cammino contando i granelli, e ogni giorno proseguo dal numero a cui ero arrivato il giorno prima. Penserà che io sia malato, come sono malate quelle persone che non hanno nessuno a cui raccontare di sé. Ma io mi sto curando, già, e il giorno in cui non verrò più qui sul lungomare a contare, sarà forse il giorno in cui inizierò davvero a vivere la vita che sto vivendo ora. Mi sveglierò la mattina senza sentire il vuoto in un angolo del mio cuore, e farò colazione mangiando solo per uno. Andrò al lavoro senza accumulare nella testa le cose da raccontare poi a casa e rientrerò la sera, senza cercare più la scintilla negli occhi di mia moglie, perché non avrò più nessuno a cui paragonarla. Andrò a dormire sperando di non sognare, perché sarò sicuro che nei sogni non sarò mai più felice.
Ma finché i granelli di sabbia non si esauriranno, io tornerò qui, in cerca dell’infinito. Quello che mi ha portato avanti in questi anni, quello che tenevo appiccicato al cuore. Perché l’infinito, se anche la vita, a volte, fa di tutto per farlo vacillare, non dovrebbe finire mai.”